“Nessuno si mette alla scacchiera se non ha paura. Ci si siede lì per quello: per paura. E per provare a trovare un posto all’angoscia come si trova il posto migliore per difendere il proprio Re”.
#barbaglia # la mossa del matto
“Nessuno si mette alla scacchiera se non ha paura. Ci si siede lì per quello: per paura. E per provare a trovare un posto all’angoscia come si trova il posto migliore per difendere il proprio Re”.
#barbaglia # la mossa del matto
“Nel mio cuor dubitoso sento bene una voce che mi dice: “veramente potresti esser felice”. Potrei, ma non oso.”
Scappo fuori a cercare il caldo, a mischiarmi tra la gente che suda, a godere la notte di un’estate bollente che sfida e distende scoprendo il corpo al cielo. Scappo fuori a cercare l’acqua che sa’ di mare ma è citta’ corrente che brilla e ristagna, si riempie di odore e mi ricorda il porto ma non apre le vele. Scappo fuori dalla condizione che trasforma l’aria in un respiro affogato, dalle lenzuola stirate e fredde, dal cuscino intonato ad un sogno spento.
Azzurra è la distesa infinita che spalanca lo sguardo al mare. Azzurra è una mattina fresca e serena che parla il canto degli uccelli e muove le foglie senza ore. Azzurra è una barca a remi che trafigge il sole mentre il caldo dondola e tace. non c’è parola più dolce di un lento e silenzioso rumore. Azzurra è la vita che scalcia, trema, impazzisce e impera tra le gambe della notte materna, e fa della paura l’uomo che cresce solo, come un faro che sta ad illuminare.
21/06/2022
Buon viaggio- si dice buon vento- , il volume e’alto e la cambusa è piena e pieno è il porto che soffia sulle vele e il mare. Sale senza crescere mai, la nostra voglia di tempo è infinita, di albe sveglie siamo pieni e i piedi gonfi e i passi scalzi, istanti ubriachi. Veloci senza perdere niente, ci tuffiamo e andiamo.
Mentre calma di bianco e di pizzo ci lasci indietro scoperti e ci sorridi ché la morte è morta e fredda e presente ma non fa più paura. Ci stringi, preghi, mastichi e ceni.
Abbiamo navigato, bevuto, imparato e aspettato. Abbiamo tutti strappato e poi sorriso sfidando il dolore ad un bar delle ore che non volevamo chiudesse
prima dell’ultimo giro.
“Forse le cose stanno esattamente così: quelli che vale la pena di amare veramente sono quelli che ti rendono estraneo a te stesso. Quelli che riescono a estirparti dal tuo habitat e dal tuo viaggio e ti trapiantano in un altro ecosistema, riuscendo a tenerti in vita in quella giungla che non conosci e dove certamente moriresti se non fosse che loro sono li e ti insegnano i passi e le parole e i gesti e tu contro ogni previsione sei in grado di ripeterli.”
A. Baricco, introduzione, Chiedi alla polvere.
così la morte diventa vita per una città di provincia piccola e sconosciuta che si sveglia bandiera nazionale di una storia dolorosa e messa in scena, di un egocentrico pettegolezzo pieno di lingue e tanto gusto sulle labbra insipide della gente. il silenzio sarebbe dovuto ma la voglia di sapere corrisponde a dire, dire a tutti i costi qualcosa, essere parte, recitare con le dita sulla tastiera, seduti comodi dietro allo schermo parlando di morte con la bocca piena e il telefono in mano. le pagine istantanee trasformano persino il lutto in un segnale vuoto e appariscente che resta per un attimo nero e poi cambia, sorride, apre le cosce all’estate, al vino, alla cucina stellata, al piatto fotogenico, al culo sodo e alla prossima acclamata opinione.
vestiti senza corpo, nudi dentro a una fotografia, parliamo di razzismo, di scienza, di cinema, di società, di peccati gravi e confessioni, di punizioni e comandamenti.
oggi è toccato a lui, domani farà caldo, sarà domenica, il meteo promette nuvole e un’estate torrida, c’è la prova costume, la sabbia bianca, la barca a largo e la bottiglia, la gita fuori città.
poi sarà alla musica, al cinema, alla televisione, alla fine penosa di qualche altra vita che affideremo la nostra celebrità.
sogni d’oro, andiamo a dormire e se la notte diventa insonne vale la pena sonnambulare nel nostro video formato cuscino, tra invisibili amici alzare colonne di consigli a puntini, chiudere la pagina con fama e popolarità.
non è il colore della pelle e neppure il profumo umido del deserto lontano a lasciarci affogare in questo mare, siamo troppo a largo. torniamo.
“Se lasciate che affiori in voi stessi, ciò che avete vi salverà. Se in voi stessi non lo avete, ciò che in voi stessi non avete vi ucciderà. “
Prima o poi la vita mi si mettera’ davanti e balzero’ per strada. Come un leone.
Haroldo Conti
E quando tutti se ne andavano
e restavamo in due
tra bicchieri vuoti e portacenere sporchi,
com’era bello sapere che eri lì
come una corrente che ristagna,
sola con me sull’orlo della notte,
e che duravi, eri più che il tempo,
eri quella che non se ne andava
perché uno stesso cuscino
e uno stesso tepore
ci avrebbero chiamati di nuovo
a svegliare il nuovo giorno,
insieme, ridendo, spettinati.
Julio Cortázar
ci amavamo odiandoci, con stile. una questione di ritmo credo.
non c’è sempre una spiegazione a tutto e non è detto che il tempo sia galantuomo
a perire ero ancora io e a ferire lui, di spada e non di cuore, si intende!
eppure ricordo quegli anni in cui i nostri corpi avvinghiati erano carne
stare con lui mi appassionava piu’ di ogni cosa e credo che per lui fosse lo stesso
finchè il volume alto della televisione, i canali cambiati con isterica impazienza, la pancia sudata e nuda
anestetizzati dalle porcherie del mondo cercavamo a tutti i costi di restare svegli.
il mio fisico cedeva e la mente lo seguiva a picco
tra abusi e follie, pentimenti e bugie, sentii il mio corpo venire meno e vidi la mia faccia cambiare.
Oggi il mare si e’ congelato, il tramonto incenerito,
mi sento quasi imbarazzata mentre sono assorta in questo viscido dolore, pensando a chi con te stava crescendo la vita. ma ho la testa intasata dal tuo volto e dalla tua voce, da quel faccione e quella pancia gonfia che portavi con stile -comico- tra le sdraio e gli ombrelloni, invitando tutti gli ospiti a fare un brindisi, bollicine, un sorriso finendo per dimenticare. Milano e’ piccola per te- mi dicevi.
Meglio tenermi lontana da li.
ma dove sei andato? volevi nuotare? passeggiare?prendere aria? far passare la sbornia o portare con te la festa?
quel tappeto d’oro di sabbia e di stelle ora sarà eternamente nudo.
Cambothai, le mani sul corpo, la strada puzza di riso fritto, la polvere si alza fresca, la lingua si sporca di un sapore nuovo.
Cambothai, il silenzio nel buio infinito, l’atterraggio sul mondo nudo, sorrisi muti e prolungati e zitti, dolcemente in piedi come fiori. Cambothai, la vita esplosa con le braccia in preghiera, le ginocchia chine sulle gambe incrociate e mutilate, i piedi scalzi tra le pozzanghere e i cocci, occhi, quelli, decisamente sacri. Ho calpestato la folla guardando in basso, con le spalle coperte e fino ai piedi. Cambothai, senza parlare, l’alito impastato dalle pentole grasse e mai pulite, mescolate da una vita, che te ne vai e resteranno lì.
Cambothai, lamette nella strada come mine ammaliatrici di gente assente, all’incontro coi cani che abbaiavano restando in gruppo, erano magri,pacifici, accoglienti, forse un po’ stanchi. Cambothai, il corpo teso verso l’ altezza, l’energia si distende, la stella cadente da’ un nome a tutto e illumina e spiega la più offesa scommessa.
Cambothai, tra le porte si va fino al Paradiso che pulisce e ricompensa ogni umana incertezza. Infine la spiaggia, bianca e festosa, universo di palme e acqua di cocco, che a dormire sotto le sue spalle di legno cigolante prendi il verso di un animale, diventi momentaneo, fermo, colorato, innocuo e pensatore.
Cambothai, le mani pesanti sul corpo piegato, gli occhi feriti fino al collo e alle orecchie. Il cuore non si ammolla e strizza al vento le parole sporche. Tutto si asciuga e riprende luce
di corallo bianco
non c’è nulla di brutto di fronte a quel mare.
“Veramente adulti non lo si diventa mai.”
“Sto sempre andando a casa. Sto sempre andando alla casa di mio padre”
Dissi velocemente ciao, non seppi aggiungere altro. A tavola avevo ripassato tra i bocconi-in pochi minuti- una serie di raccomandazioni che come previsto non riuscii a fare. Mi sentivo ancora troppo figlia per invertire i toni. Così preferii sbattere la porta, lasciare in giro qualche pezza disordinata di me, salutare mia mamma con l’ultimo bacio in ascensore, promettere di stare bene e di contare le cose, di non dimenticare nulla sul treno. Preferii scendere giù e ordinare un caffè prima di andare, tenere la borsa a tracolla e la camicia stropicciata, sudare in macchina e fumare nervosa ascoltando la radio senza dire una parola. Preferii arrivare in stazione e buttarmi tra la folla per sentirmi folla, con lo sguardo pendolare di chi lascia arrabbiato la propria terra. Preferii addormentarmi sul sedile scomodo, scendere a fumare ad ogni fermata e risalire alla carrozza bar per sorseggiare una birra. Arrivare in ritardo e applaudire al finale, complice di quella vita che ancora mi teneva sola e dondolava. Preferii aspettare la sera, passare la notte col fiato corto e la colpa inchiodata al cuore come un pugnale. Sentire lo schifo del mio corpo umiliato, aggrappato a un corpo freddo, sudato e salivare, per troppo tempo abbracciato, scambiato ciecamente per amore. Preferii svegliarmi stanca e vestirmi di fretta. Preparare il caffe’, strofinare i denti e la bocca. Indossare una camicia larga con le iniziali, non desiderare la sua rimpatriata. Sedermi in ufficio con la faccia gonfia, provando a tratti, di stento, a immaginare una diversa vita. Dissi velocemente ciao, ero ancora figlia.